Non si sa per quale motivo i miei familliari ponevano molta attenzione al fatto che talvolta scrivevo versi sui miei disegni infantili e anche al fatto che fossi bravo nel narrare delle vicende.

 


Poesie di un bambino e temi in classe scritti ricordando ciò che avevo letto, mi accorgevo che quello che facevo non era particolare, ma nella mia ricerca mi sembrava interessante unire insieme forme, colori e parole.

A scuola divenni abbastanza conosciuto per essere uno che scriveva bene, ma per me si trattava sempre di una specie di arte inferiore, poco divertente, poco emozionante; un'arte di persone che non si muovono per stanchezza o per vecchiaia.

Mi piaceva leggere, ma solo i libri che imponevano al mio cuore di battere più forte e alla mia fantasia di volare veloce: miti struggenti, fiabe, fantascienza, vite straordinarie, archeologia misteriosa.

Le compostezze letterarie e le raffinatezze linguistiche non sono mai state il mio forte e così tutto quello che richiede al cervello di fare da protagonista. Così come allo stesso modo i racconti di vita quotidiana e noiosa, con pretese spirituali. -... Che bisogno c'è di leggere su una pagina ciò che possiamo vivere personalmente... -, pensavo già allora; e lo penso ancora adesso. Forse capii che non sarei mai stato un intellettuale; ancora adesso sono felice di aver mantenuto questo proposito, non sono un intellettuale, non lo sono mai stato, non auguro a nessuno di esserlo.

L'intelletto da solo non ha alcuna forza.

La maggior parte di coloro che si considerano intellettuali, sono solo persone che hanno imparato a sostituire la vita con i simboli che la rappresentano. Non è un bel lavoro; ed entrati in quel mondo non se ne esce, dal momento che nella vita, quella vera; quella fatta di misteri, emozioni e sentimenti, non si è affatto migliori di altri se si è intellettuali, anzi è spesso il contrario.

Quindi la dimensione intellettuale è spesso una rinuncia alla vita ed è la pretesa di costruirne una alternativa fatta di segni.

Certo, meglio che essere serial killer, ma non è neanche l'aspirazione più elevata.

Nel 2002 ho iniziato ad avere qualcosa di chiaro circa la nostra società e la sua evoluzione dagli anni '60 ai nostri giorni; ricordo che ne parlai con un mio amico psicologo e lui mi rispose che io non ero un professionista della ricerca psico-sociologica, quindi non avrrei potuto scrivere un lavoro serio su questi argomenti. Fu un buon suggerimento; visto che le cose stavano così decisi di scrivere un romanzo...

Per molto tempo ero indeciso sul titolo da dare ad esso, poi ebbil l'idea giusta: "PUBLIC RELATIONS".

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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